Ristorante Dina
Punteggio: 5 / 5
Prezzo (escluso bevande): 63 / 100,00 euro cad.
Specialità consigliate
Chi lo ha detto che le passioni nascoste non diventino poi un lavoro?
A volte serve solo coraggio, guardarsi dentro e capire che direzione prendere. Se la felicità è in un’altra direzione allora bisogna tentare.
Magari si riesce a diventare anche bravi e da passione trasformarla in lavoro vero e proprio.
Questa è la storia di Alberto Gipponi detto “Gippo“ un ragazzone di 38 anni con la vocazione per la cucina. Due anni fa, si è reinventato cuoco, dopo una laurea in sociologia e anni come musicista. Gippo ha sempre avuto questa innata passione tramandata dalla nonna (Dina appunto), ma forse non si era mai guardato bene dentro.
Sono stato da lui un sabato sera, volevo provare la sua cucina. Sulla bocca di tutti, mi incuriosiva scoprire chi fosse questo cuoco autodidatta che si era fatto da se attraverso stage da grandi nomi come Osteria Francescana e l’Orsone Joe Bastianich. Entrato nell’olimpo degli chef talentuosi più acclamati, ha ricevuto da poco con il suo Ristorante DINA la nomina a Novità dell’Anno nella prestigiosa guida dell’Espresso. Il locale si trova nel piccolo paese di Gussago vicino a Brescia.
E’ un caseggiato molto semplice di color rosso mattone, ma che al suo interno custodisce un viaggio di sensazioni visive e palatali, tra stanze colorate e piatti scenografici. Sull’ingresso del portone la scritta “DINA” e un campanello.
Suoniamo… Il rumore del chiavistello e il portone si apre.
Ed è proprio lo chef a invitarci ad entrare nel suo mondo… Penso già che sia tutto strano.
Ci ritroviamo in una stanza buia con in fondo una scritta in neon a alluminare il pavimento. “Until then if not before” (fino ad allora se non prima). In questa sala, cuore di Dina, ribattezzata dallo chef “camera di decompressione” si intuisce già che sarà un percorso fatto non solo di piatti ma di storia e di emozioni. Un’esperienza che coinvolgerà tutti sensi, come vuole lo chef. Un sala concettuale, nata per permettere al cliente di lasciarsi alle spalle il mondo esterno, ed entrare nella storia di DINA, che lo chef da abile narratore sta per raccontare. Ci spiega come si svolge la degustazione e il significato delle 4 stanze all’interno.
Ogni stanza è differente per significato e custode di opere d’arte ed elementi di design, altra grande passione di Alberto.
in ognuna è presente un libro per raccogliere le impressioni del clienti.
Altra particolarità è la mise en place, con posate differenti a seconda che si scelga un menù classico o più elaborato.
Il menù infatti si sviluppa oltre alla carta su 3 tipologie di degustazione: classica e delicata la prima da 5 e 7 portate, o particolare composta da 10 portate. Quest’ultima, frutto di una cucina più decisa ed estrema, ha 3/4 portate che potranno essere a seconda del gusto del cliente amate od odiate; perché seguono la sperimentazione dello chef, azzardi della sua mente, quindi sapori decisamente più forti.
Gippo infatti, come scopriremo a fine cena, predilige giocare con sapori amari, acidi e balsamici.
Non per scelta ma perché era tutto pieno, ci accomodiamo nella stanza del laboratorio sperimentale. Mi guardo attorno, tutto è stravagante, quadri al contrario, soffitto illustrato e coloratissimo, uno specchio affianco al nostro tavolo a riflettere questo momento. Mi ricorda un po’ Alice nel paese delle meraviglie. Su consiglio dello chef prendiamo la degustazione più classica, da 5 portate, perché come dice lui prima bisogna conoscersi poi azzardare se si vuole.
Iniziamo con 2 entrèe: “Brodo di casa“ e “Da dentro al sacchetto“: quest’ultimo composto da “casoncello crudo, ma cotto”; ricordo d’infanzia dello chef, di quando rubava i casoncelli crudi a nonna Dina. Inutile dirvi che ne avrei mangiati un vagone, per fortuna placo la fame e la voragine che si è creata con un antipasto tanto delicato che alquanto buono. Già il nome mi faceva ridere, “Casomai venisse a pranzo Davide Oldani”: Crema di cipolla acida, all’interno una spuma di grana padano 43 mesi, e sopra una quenelle di gelato di cipolla rossa di tropea una sfoglia croccante a racchiudere una spuma sapida e delicata di grana in contrasto con il freddo e dolce gelato di cipolla. Un richiamo al famoso piatto dello chef Stellato.
Proseguiamo con un altro piatto più “scenografico“ e dal significato profondo, “Tutto ci passa attraverso e ci cambia”, crema di cozze con crema di pomodoro confit piccante, erbe aromatiche, aria di limone, pane croccante e tartare di fungo. Una zuppa servita in un bidoncino del pattume, metafora dell’uomo a volte filtro di cose belle o brutte, di come possa essere parassita in certe situazioni.
Dopo questo ritorniamo a un più “classico“ piatto di spaghetti dal profumo di mare, “Aglio e Olio e 58“, ovvero ostrica ghiacciata e grattugiata su crema di prezzemolo con scalogno, croccante all’aglio, olio, patate e peperoncino, con burro e timo.
Fino a qui portate bilanciate, mai eccessive, delicate al palato nonostante le combinazioni a volte particolari.
Le acidità sono ancora contenute. convinti di aver sentito tutto… saremo poi smentiti alla fine.
Da una portata da mangiare con le posate si passa a un piatto da gustare con le mani, tipo street food, una specie di Kebab nostrano, “L’agnello nella bocca del lupo“. Bocca del lupo, ovvero il nome con cui si chiama la Melissa, ingrediente presente in questo agnello sfilacciato e stracotto, servito in un cartoccio di pane carasau, maionese alla curcuma, cumino, coriandolo, zenzero, crema yogurt e menta, cetrioli acidi, germogli di abete e genziana.
Prima di passare al dolce ecco un pre dessert fresco e pulito: Gelato al limone e olio d’oliva.
Giunti alla conclusione, non poteva mancare ancora un nome particolare anche per il dessert, “Ma che cavolo!”, spuma di cavolfiore e vaniglia, gelato al wasabi, crumble alla nocciola e bergamotto.
Siamo soddisfatti, i piatti sono stati interessanti, bella cucina, ma non ho trovato quella parte spinta e azzardata, quasi allarmante che mi aveva spiegato all’inizio… Col senno di poi… facevo meglio a tacere??
Mi presento quindi al Gippo, e lo chef a questo punto però vuole darci un piccolo assaggio di due piatti che lo rispecchiano maggiormente… “Risotto? Ma non doveva essere pane, burro e marmellata?!?! “, Risotto al rosmarino, riduzione d’arancia e pinoli al burro, e un dolce, “Ogni volta che io faccio un dolce un pasticcere muore di crepacuore…c’è qualcosa che non quaglia”, quaglia al miele, crema di pinoli, mou alla salvia, crumble di cacao e whiskey, gelèe al whiskey accompagnato da un brodo di quaglia, miele e spezie“.
Eccola la parte balsamica, spiccatamente acida e amara della sua cucina!
Che cavolo! ora lo dico! Il risotto a primo impatto è una bomba a mano, il palato si contorce dalla forza, poi magicamente ne rimane stupito per l’armonia che si crea svanendo in un retrogusto bilanciato e pulito.
Incredibile. Sono piatti veramente forti, bisogna abituarcisi, ma è innegabile che nascondano una grande inventiva.
I gusti pur essendo estremi non risultano buttati a caso, ma nella loro forza sono sempre comunque bilanciati.
Il dolce con la quaglia è deciso ma meno del risotto, ogni cucchiaiata cambia sapore, sempre mantenendo la sua particolare propensione all’acido e amaro.
Ne esco soddisfatto, un locale che mi ha stupito in ogni forma, sia per le particolarità del posto, che per l’idea. Gipponi è sicuramente uno chef dalla mente creativa ed estrema per alcuni versi, ma coinvolgente.
Non rimarrete mai annoiati andando da DINA. Se sarete propensi a gusti decisi e forti lui ci sguazzerà come un bambino che vuole farvi contenti, altrimenti rimarrete comunque soddisfatti della parte più classica ma elaborata della sua cucina.
Ci sarebbe ancora tanto da dire e raccontare su Gippo e le sue intuizioni, sui piatti, la stanza buia e la “luce da mangiare“ ma vi svelerei troppe cose, dovete invece provarle di persona per capirne la bellezza.