Ristorante La Peca
Punteggio: 5s / 5
Prezzo (escluso bevande): 90 / 200,00 euro cad.
Specialità consigliate
La prima volta che varcai la soglia de La Peca, che in vicentino significa impronta, rimasi intimorito: stavo, infatti, entrando in un ristorante che dal 2009 vanta ben due stelle Michelin e, da quest’anno, è al top delle altre guide gastronomiche (tre forchette sul Gambero Rosso e quattro cappelli sulla Guida dell’Espresso).
L’accesso avviene al pian terreno, suonando il campanello: in pratica, i Fratelli Portinari (Nicola in cucina e Pierluigi in sala) ti stanno accogliendo a casa loro; una casa che si rivela sin da subito un giusto mix tra austerità e calore umano che ti fa svanire qualsiasi eccesso di timore reverenziale.
Nonostante siano passati alcuni anni dalla mia prima visita, la sensazione è ancora quella.
La sala principale, la sera illuminata da calde luci soffuse, affaccia sui colli Berici.
I tavoli hanno una mise en place molto sobria che trova un piacevole contrasto nei coloratissimi centri tavola (dei veri e propri capolavori d’arte) che Cinzia Boggian, moglie di Pierluigi, crea partendo da stoviglie rotte e materiale di cucina obsoleto. Una vota accomodato al tavolo, con una bella bollicina suggerita dal giovane, ma, preparatissimo, sommelier Matteo, arriva il menù che, oltre alla classica carta, offre la possibilità di scegliere tra tre percorsi di degustazione a vocazione squisitamente stagionale: Mare, Terra e territorio e Impronte.
La scelta cade, ovviamente, su “Impronte” ossia il menù più completo e impegnativo (ben 12 portate!) che, però, consente di scoprire la filosofia dello Chef.
Nel menù, accanto ai nomi dei piatti, ogni tanto, troverete delle piccole peche: ebbene, quelli sono i piatti che hanno lasciato un’impronta nella vita del ristorante. Una particolare nota merita la carta dei vini che, a mio modesto avviso, risulta una delle migliori carte vini del Veneto, dove accanto ai grandi classici, si trovano, frutto di molta ricerca, tante piccole “chicche” di piccoli produttori, il tutto con dei ricarichi assolutamente ragionevoli.
In attesa di iniziare il percorso vero e proprio, arriva il primo amuse-bouche, ossia un divertentissimo bon bon di carota ripieno di americano, cui fa seguito un’ottima variazione di zucca (zucca, crema di zucca, semi di zucca) e uva fragola che lascia oggettivamente stupiti creando un mix in cui le note dolci della zucca vengono smorzate dalla sapidità dei suoi semi e dall’acidulo dell’uva fragola.
A chiudere il trittico, una sfera di funghi porcini con un croccante di prezzemolo che risulta essere totalmente fuorviante: osservandola, infatti, ci si aspetterebbe una consistenza croccante della sfera e una temperatura quantomeno tiepida, al contrario, si presenta al palato piacevolmente freddo con una consistenza morbida e un’esplosione di sapore di funghi.
Con l’ostrica affumicata, carota e rabarbaro alle fragole si aprono le danze della degustazione è subito un gran successo, merito del perfetto equilibrio che dà l’affumicatura dell’ostrica rispetto ai sapori tendenzialmente dolci degli altri ingredienti; un piatto che sicuramente ti invoglierebbe a chiedere il bis se non fosse che il percorso è ancora molto lungo.
Rispetto all’esplosione di sapori dell’ostrica, il friabile d’alghe, black-cod cremoso e caviale si colloca ad un gradino leggermente più basso: nonostante il piatto sia tecnicamente perfetto ed equilibrato, sia nei sapori che nelle consistenze, non risulta essere travolgente.
Con l’uovo marinato in sfoglia di nocciola, robiola cavolo nero e tartufo bianco si torna immediatamente in vetta! Al di là del nome, l’uovo non si presenta nella sua interezza, bensì in maniera rivisitata e scomposta a mo’ di millefoglie nella quale si trovano, alternati, il tuorlo d’uovo “corretto” con aceto di riso e una piacevolissima crema pasticcera salata, supportati dalla leggera croccantezza della sfoglia alla nocciola. A rendere il piatto ancor più spettacolare, una generosissima grattata di tartufo bianco che ha inebriato le narici e il palato ad ogni boccone, senza però mai coprire il tripudio dei singoli sapori del piatto.
La grande cucina è quella che riesce ad esaltare i piatti poveri della tradizione, portandoli ad un livello “superiore” e così è stato con l’intingolo di pollo ruspante con le “cicche” e topinambur.
Sapori belli decisi che non solo non stancano, ma anzi ti fanno sentire la mancanza di una bella forchettata di spaghetti per poter raccogliere anche l’ultima goccia di sughetto rimasta nel piatto. La “mancanza” degli spaghetti per “far scarpetta” viene subito colmata con l’ormai classico ed intramontabile spaghettone al succo di cipollotto rosso, triglia al lime e caviale affumicato che, con il suo equilibrato gioco tra dolcezza ed acidità, riesce la lasciare in bocca con una piacevolissima sensazione di freschezza, pronta per affrontare la prossima portata.
Con il palato ben pulito, fanno il loro ingresso i ravioli di piccione, crema di porro e burro acido alla salvia. Anche questa portata risulta essere di un equilibrio spettacolare; tuttavia ciò che lascia inizialmente stupiti è l’inconsueta consistenza della sfoglia del raviolo, merito dell’impasto a base di ceci e riso nero, quindi, totalmente privo di glutine.
Considerato il numero di portate già gustate verrebbe naturale pensare di provare una sensazione di sazietà o di pesantezza, tuttavia la leggerezza della cucina, l’uso importante di vegetali e il ridottissimo utilizzo di grassi ti mette in condizioni di proseguire senza paura la degustazione, ormai giunta a metà del suo percorso.
L’apertura della degustazione dei secondi piatti è affidata alla zuppa di scampi 2018, ossia tartare di scampo, crudità di scampo e zuppa di scampo con aria di limone: in questo piatto l’eccellenza della materia prima gioca un ruolo fondamentale che ti permette di provare una spettacolare escalation di sapori in cui la zuppa di scampo, che apparentemente si potrebbe pensare possa coprire la delicatezza delle crudità, riesce, invece, a far esplodere i sapori dello scampo crudo.
Dalla delicatezza dello scampo si passa alle note robuste dell’anguilla in forno di braci con guava e tamarindo, ossia uno dei piatti storici del ristorante. La perfetta cottura alla brace dell’anguilla porta una carne, naturalmente molto grassa, ad un livello inaspettato di leggerezza in cui il sapore carnoso dell’anguilla riesce comunque a dare il meglio di sé, anche merito delle note acidule del guava.
A mio modestissimo avviso questo è il miglior piatto di anguilla gourmet che, sino ad ora, abbia mai assaggiato!
La parte salata della cena sta per volgere al suo termine quando fa capolino la selvaggina secondo mercato, ossia, nel mio caso, una spettacolare lepre in civet.
Il piatto, oggettivamente, per i non amanti della selvaggina, potrebbe risultare “estremo” poiché la lepre viene servita sostanzialmente cruda, solamente marinata in civet (ossia una marinatura a base di vino, cipolla e spezie): la marinatura, da un lato, rende più morbida la carne, senza alterarne la consistenza, e, dall’altro, con le sue note agrodolci, arrotonda il sapore della cacciagione. Abbandonata a malincuore la cacciagione, inizia la virata verso la parte finale della cena e, quindi, verso il comparto dei dolci.
Il passaggio, tuttavia, avviene gradualmente grazie alle praline di fegato grasso e cioccolato. Lo Chef, per preparare la bocca ai dessert, presenta tre piccole praline di foie gras e cioccolato che rivisitano, portandoli all’eccellenza, dei grandi classici dei dolci industriali quali il tronky (nocciola), il boero (ciliegia sotto spirito), pocket coffee (caffè). Inutile dire che, potendo, mi sarei fatto fare una bella confezione d’asporto da gustare lungo la via del ritorno.
La chiusura della cena è affidata dapprima ad un gelato alla mela tatin e, infine, ad un semifreddo al pepe verde, ravanelli, pimpinella e agrumi le cui note speziate ed acidule aiutano ad attivare il processo digestivo dopo aver, comunque, lasciato al palato una delicata e piacevole nota di piccante che invoglia a mangiarne sempre un cucchiaio in più. Al termine della cena, nulla di meglio di un buon caffè accompagnato da una piccola pasticceria veramente spettacolare che per quantità e qualità, sino ad ora, non ha trovato pari nelle mie ormai varie peregrinazioni gastronomiche.
In conclusione
La Peca è un ristorante assolutamente di punta nel panorama gastronomico italiano che, a mio modesto avviso, merita sicuramente una visita da chiunque si trovi quantomeno ad un’ora di macchina. Quello che in realtà mi stupisce di questo ristorante, al di là dell’ottimo cibo, è il clima di familiarità che aleggia nella sala, che fa sì che il Cliente, anche la prima volta che si approccia al locale, si trovi a proprio agio. Un’ultima nota merita, infine, l’elegantissimo fumoir a piano terra ove è possibile, in assoluta tranquillità, degustare un ottimo distillato.
Recensore katsuobushi (Delegato Simon’s Food)